Ultimo aggiornamento 07/11/2020 12:00
Dic 30, 2014 Cardiotool Questioni Pratiche, Questioni Pratiche - Vasculopatie 3
L’indice pressorio caviglia-braccio (ABI) è il rapporto tra la pressione sistolica misurata alla caviglia e la pressione sistolica misurata al braccio.
Essendo una procedura semplice e di basso costo, le linee guida sottolineano che sarebbe opportuno che la misura dell’ ABI fosse eseguita dal MMG con il considerevole vantaggio di poter sottoporre a screening tutti i propri assistiti che rientrano nelle categorie a rischio, senza dover richiedere in prima istanza una valutazione specialistica, con il conseguente risparmio di tempo e risorse.
La misura dell’ABI da parte del MMG consente:
Come si misura l’ABI:
Interpretazione dei valori:
Il riscontro di un ABI maggiore di 1.3 è tipico in caso di arterie calcifiche, tale condizione è frequente in caso di diabete, insufficienza renale cronica avanzata e nei grandi anziani; tali soggetti potrebbero altresì essere realmente affetti anche da AOCP, per tale motivo in questi casi, essendo l’ABI poco affidabile, viene consigliata l’indagine ecografica.
Nel follow-up viene solitamente considerata significativa una variazione di almeno 0.15 dell’ABI, sia in caso di peggioramento della perfusione tissutale (-0.15 rispetto ABI precedente), sia in caso di miglioramento dopo rivascolarizzazione (+ 0.15 rispetto ad ABI precedente).
Nel sospetto di una arteriopatia asintomatica con valore basale di ABI normale o poco alterato si consiglia di ripetere la misura dopo cammino su tapis roulant (o test del cammino, o test della dorsi-flessione del piede) ; la riduzione dell’ABI dopo lo sforzo confermerà il sospetto di AOCP asintomatica.
La misura della capacità di marcia risulta molto utile per:
Parametri da considerare:
Possibili metodi di valutazione:
L’esercizio fisico controllato, ovvero supervisionato da staff specialistico che monitorizza tutti i parametri cardiocircolatori e respiratori, tarando il carico di lavoro sulle capacità individuali del singolo paziente, ha mostrato di essere significativamente più efficace rispetto al semplice consiglio, scritto o verbale, di svolgere autonomamente attività fisica tipo il cammino.
Tuttavia l’esercizio fisico domiciliare è preferibile rispetto alla totale sedentarietà e, considerando le difficoltà organizzative di cui necessità il training controllato, la strategia più ragionevole è quella di riservare il training controllato ai pazienti con claudicatio moderata e severa, raccomandando la deambulazione “autogestita” ai pazienti con claudicatio lieve.
È stato dimostrato che per avere un significativo miglioramento della capacità di marcia, in entrambi i casi, il paziente dovrebbe svolgere esercizio fisico quotidiano di almeno 30 minuti (o due chilometri) complessivi.
Per dare indicazioni più precise riguardo all’esercizio domiciliare, si possono utilizzare i parametri ottenuti dal test del cammino dei 6 minuti (6MWT); prescrivere un piano di allenamento consistente in frazioni di marcia spontanea in piano pari al 60-70% della distanza di claudicatio assoluta (ACD), intervallate da un periodo di riposo pari al tempo di recupero misurato durante il 6MWT; il paziente dovrà ripetere le frazioni di marcia ed i periodi di riposo sino al raggiungimento di almeno 30 minuti (o 2 km) di marcia effettiva. Con il miglioramento della performance deambulatoria, il programma di allenamento dovrà essere ritarato in base ai parametri della nuova capacità di marcia.
Dopo un periodo di 3-4 settimane è opportuno svincolare il paziente dal programma di allenamento, raccomandando di misurare mensilmente la capacità di marcia. In caso di riduzione superiore al 20% del valore misurato alla fine del training è consigliabile ripetere il ciclo di allenamento.
Le procedure di rivascolarizzazione non hanno indicazione nella claudicatio intermittente lieve e moderata, mentre rappresentano la prima opzione terapeutica da considerare nella claudicatio severa, con scelta prioritaria per le procedure endovascolari.
Nella claudicatio moderata, la possibilità di eseguire una rivascolarizzazione può essere presa in considerazione se, nonostante il miglior trattamento medico realmente praticato (farmaci antitrombotici, training fisico e farmaci per la claudicatio), il paziente non ottenga un reale miglioramento o stabilizzazione del quadro clinico. La rivascolarizzazione può essere indicata anche se la capacità di marcia (a prescindere dal valore assoluto della distanza massima che il soggetto riesce a percorrere) limita la qualità di vita del paziente (claudicatio invalidante). Il termine claudicatio invalidante non compare nelle classificazioni della AOCP perché è un criterio soggettivo; prima di porre indicazione alla rivascolarizzazione nella claudicatio lieve o moderata con questa motivazione è opportuno procedere alla valutazione oggettiva dell’invalidità del paziente mediante la misura della qualità di vita utilizzando questionari ad hoc.
Un intervento in stadi troppo precoci infatti potrebbe essere controproducente per il paziente e potrebbe creare serie difficoltà per un intervento successivo, indispensabile se il paziente dovesse giungere a stadi di malattia più avanzati. In quest’ottica è opportuno informare il paziente sulle alternative terapeutiche possibili, sulle possibili complicanze del trattamento endovascolare, sulla necessità di ulteriori terapie farmacologiche dopo il trattamento (doppia e tripla antiaggregazione, terapia anticoagulante).
I criteri di scelta tra le varie tecniche disponibili (procedure endovascolari o chirurgia open) comprendono la sede delle lesioni steno-ostruttive, la loro entità ed estensione, la presenza isolata o multipla.
Tipologie di intervento:
Per lesioni a più livelli dell’albero arterioso va, sempre più, prendendo piede il ricorso a trattamenti “ibridi” (EV e chirurgia open nel corso della medesima procedura)
In caso di ischemia critica, talvolta diventa necessario intervenire con opzioni demolitive, tra queste troviamo:
Al pari di tutte le altre localizzazioni di lesioni aterosclerotiche, anche l’AOCP può essere presente senza produrre dei sintomi; tale condizione va sospettata nei seguenti gruppi di pazienti:
La diagnosi di AOCP asintomatica viene confermata con la misura dell’indice caviglia/braccio (ankle-brachial index- ABI) a riposo e, eventualmente dopo esercizio fisico. Un ABI al di sotto di 0.9 è indicativo di AOCP. Se la diagnosi è confermata, è consigliabile procedere all’ identificazione ed alla correzione di tutti i fattori di rischio e ad un trattamento con farmaci antiaggreganti piastrinici.
Ulteriori esami, come quelli indicati per la claudicatio (ECD dei tronchi sovra aortici e dell’aorta addominale), anche se non espressamente indicati, possono essere utili per completare la valutazione del paziente.
Sorveglianza e follow-up: il soggetto con AOCP asintomatica va controllato annualmente monitorando l’ABI e controllando l’efficacia della correzione dei fattori di rischio. Se la diagnosi non è confermata, è opportuno eseguire un controllo dopo due anni.
L’AOCP è anche una delle manifestazioni più frequenti della macroangiopatia diabetica; in tali pazienti l’arteriopatia tende a manifestarsi più precocemente rispetto ai soggetti non diabetici (circa 10 anni prima) e colpisce soprattutto le arterie di medio e piccolo calibro (parte distale della femorale superficiale, poplitea, arterie sotto-genicolari), con un relativo minore impegno aorto-iliaco.
Anche a livello clinico si riscontrano delle differenze, infatti l’AOCP diabetica decorre per anni in modo asintomatico, per l’elevata soglia al dolore e per la sedentarietà tipica della maggior parte dei diabetici. Non è quindi raro che il sintomo d’esordio dell’AOCP nel diabetico sia rappresentato dalla comparsa di ulcerazioni cutanee dovute ad eventi trombo-embolici, sia macrocircolatori che microcircolatori. La presenza di ulcerazioni cutanee ischemiche configura il quadro di ischemia critica, che nel paziente diabetico risulta ancora più grave rispetto al non diabetico per la probabile coesistenza di neuropatia e facilità d’infezione (piede diabetico) che aumenta il rischio di amputazione e/o di morte.
L’elevata prevalenza dell’AOCP nel diabetico impone una stretta sorveglianza di questi pazienti con l’obiettivo di una diagnosi precoce finalizzata al rallentamento della progressione della malattia e soprattutto alla prevenzione di eventi cardiovascolari maggiori (infarto miocardico e stroke) fatali e non fatali. Un’adeguata valutazione vascolare dovrebbe essere rivolta a:
Il MMG (e il Diabetologo) dovrebbero controllare periodicamente la presenza dei polsi arteriosi e/o di soffi vascolari, la capacità deambulatoria e lo stato trofico della cute, misurando l’ABI quando rilevassero una riduzione della pulsatilità, la presenza di un soffio o la riduzione della capacità deambulatoria. In base al valore di ABI dovranno avviare il paziente allo Specialista che proseguirà l’iter diagnostico.
Nel caso di comparsa di ulcere cutanee le linee guida suggeriscono di avviare direttamente il paziente alla misura del’ossimetria transcutanea (ed eventualmente all’esecuzione di un ECD estensivo delle arterie degli arti inferiori con l’intento di fornire al paziente il più opportuno trattamento nei tempi più brevi.
L’occlusione arteriosa acuta riconosce principalmente due eziologie: embolia e trombosi in situ; numerose sono le condizioni che possono comportare uno dei due fenomeni; tra queste troviamo: fibrillazione atriale, infarto miocadico acuto, endocardite, trombi associati a protesi valvolari, aneurisma dell’aorta, trombosi su placca o di aneurisma arterioso, by-pass arteriosi, stati di ipercoagulabilità, forme iatrogene (es.cateterismo cardiaco, procedure endovascolari).
Presentazione clinica (le 5P):
Se l’occlusione arteriosa acuta si associa alla presenza di circoli collaterali adeguati, sintomatologia e reperti obiettivi assumono spesso minor gravità e il paziente potrebbe riferire solo una riduzione improvvisa della distanza percorribile senza che insorga il dolore, oppure la comparsa di dolore non intenso associato a parestesie.
Per salvare l’arto colpito diagnosi precoce e trattamento tempestivo risultano fondamentali; dopo aver confermato il sospetto clinico tramite indagini strumentali (angio-TC/angio-RM/cateterismo arterioso) verrà somministrata eparina per impedire la propagazione del trombo e verranno poi messe in anno procedure di rivascolarizzazione quali trombolisi intraarteriosa, trombectomia meccanica, tromboembolectomia endovascolare o chirurgica o interventi di by-pass; la strategia terapeutica dipenderà dal tipo di occlusione (trombosi o embolia), dalla localizzazione, dalla durata dell’ischemia, dalle comorbidità del paziente e dal bilancio rischi/benefi della terapia stessa. Se non sussitono rischi immediati di perdita dell’arto, può essere indicato anche un approccio più conservativo basato sull’impiego di anticoagulanti e stretto monitoraggio del paziente.
Nei casi più estremi in cui siano presenti danni irreversibili si procederà all’amputazione.
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