Ultimo aggiornamento 07/11/2020 12:00
Set 28, 2018 Augusto Zaninelli Casi clinici, FOCUS ON TVP, Trombosi venosa profonda - Embolia polmonare CC 6
a cura di Augusto Zaninelli
the System Academy, Firenze
Enrica, donna di 78 anni, con una storia clinica priva di malattie cardiovascolari, presenta ipertensione arteriosa adeguatamente controllata dalla terapia con ACE-inibitori. Un mattino, all’improvviso, la paziente inizia ad accusare al risveglio una lieve dispnea, accompagnata da un senso di tachicardia continuata per circa un paio d’ore, accompagnata da lieve sudorazione in corrispondenza della comparsa di un dolore di moderata intensità alle basi polmonari bilateralmente. Chiamato a domicilio il Medico, più che altro nella convinzione da parte dei familiari che la paziente avesse una infezione polmonare, questi si insospettisce per la comparsa di dispnea, dolore e tachicardia, seppur sfumati e in assenza di febbre, disponendo, quindi, il trasporto in Pronto Soccorso del più vicino ospedale. Una volta arrivata al dipartimento di emergenza, la paziente presenta ancora una certa dispnea con una frequenza cardiaca di 110 battiti al minuto e una pressione arteriosa di 115/72 mmHg.
Un elettrocardiogramma eseguito immediatamente evidenzia una tachicardia sinusale, una frequenza cardiaca di 110 battiti per minuto ed una deviazione assiale sinistra, senza segni di ischemia cardiaca. Enrica viene sottoposta rapidamente ad una TC del torace che legittima il sospetto di embolia polmonare con la conferma di une embolia bilaterale. Successivamente, viene sottoposta anche ad un eco-color-doppler venoso degli arti inferiori che evidenziava la presenza di una trombosi a livello della vena femorale e poplitea di sinistra.
La paziente viene ricoverata in ospedale dove si inizia una terapia con eparina e dopo cinque giorni attraverso un breve periodo di bridging, viene avviata ad una terapia anticoagulante orale con il warfarin con l’obiettivo di mantenere il valore di INR fra 2.0 e 3.0.
A questo punto ci si pone la prima domanda: “Per una paziente di 78 anni con embolia polmonare, dovuta ad una trombosi venosa profonda idiopatica non provocata, quale deve essere la durata della terapia anticoagulante orale?”
La risposta sta nelle linee guida, che però, non sono in questi pazienti chiare e nette, in quanto suggeriscono di considerare una prima osservazione a tre mesi ed una seconda a sei mesi, rivalutando le condizioni cliniche della paziente, sia per quanto riguarda il suo rischio di sviluppare una nuova trombosi venosa profonda con conseguente embolia polmonare, sia per quanto riguarda il rischio emorragico per poter sostenere la terapia anticoagulante orale.
Enrica viene visitata dopo sei mesi dall’evento acuto, durante questo periodo è sempre stata in buona salute, non sono riportati nuovi episodi riferibili a tromboembolismo e neppure a sanguinamento. I valori di INR sono stati globalmente accettabili, con un tempo di permanenza nel range terapeutico del 90%.
Durante questo controllo, vengono eseguiti alcuni accertamenti in particolare l’eco-color-doppler venoso degli arti inferiori, che mostra una parziale ricanalizzazione dell’asse venoso femorale popliteo, con una lieve persistenza di ispessimento della parete venosa e alcuni piccoli residui trombotici diagnosticati lungo la parete delle vene. Questi residui determinano uno spessore massimo di parete di 3 mm.
Questa situazione è un po’ al limite, in quanto la prosecuzione della terapia anticoagulante orale dovrebbe essere protratta con spessore di parete superiori ai 4 mm. Inoltre, gli esami di laboratorio dimostrano una funzione renale normale sia come valori di creatinina, sia come filtrato glomerulare. Normali sono pure la conta piastrinica, il valore del D-dimero, negativa la ricerca di indicatori per una trombofilia come il fattore V di Leiden, l’iperomocistinemia ed altre alterazioni congenite dei fattori della coagulazione. Negativa è stata anche la ricerca di possibili neoplasie.
A questo punto, quindi, si impone come fondamentale la domanda se sia giusto o meno proseguire la terapia anticoagulante orale, osservando che da un lato gli indicatori di rischio trombotico risultavano deboli, ma dall’altro il rischio di avere un altro episodio dopo la sospensione della terapia anticoagulante orale, nei successivi due anni dopo una prima trombosi venosa idiopatica, è approssimativamente del 20%.
In questo caso, quindi, viene preso in considerazione per la signora Enrica la decisione di proseguire la terapia anticoagulante orale per altri tre mesi. Va precisato che questa situazione è comunque un’area grigia, nella quale le evidenze scientifiche sono deboli e le linee guida non esprimono raccomandazioni forti, lasciando le decisioni alla sensibilità del Medico che gestisce il caso, in collaborazione anche con le preferenze della paziente.
Tuttavia, passati altri tre mesi in qualche modo bisognava scegliere se continuare la terapia anticoagulante orale o sospenderla.
A questo punto, in considerazione anche del rischio tromboembolico descritto in precedenza, un’ottima alternativa poteva essere per questa paziente la somministrazione di sulodexide, la cui efficacia nel lungo periodo è stata ormai ampiamente dimostrata a fronte di un profilo di tollerabilità e di sicurezza del tutto tranquillizzante, aspetto rilevante per la fragilità dei grandi anziani (over-75) al rischio emorragico. In questo modo, poteva venir assicurato un futuro più sicuro, nel breve periodo, senza esporre la Signora ai disagi di gestione del warfarin o ai rischi di sanguinamento degli anticoagulanti diretti.
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Professore di Medicina Generale Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia Università degli Studi di Frenze Specialista in Medicina Interna Specialista in Cardiologia European Hypertension Specialist
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