Ultimo aggiornamento 07/11/2020 12:00
Nov 03, 2018 Augusto Zaninelli FOCUS ON TVP, Questioni Pratiche, Questioni Pratiche - Trombosi Venosa Profonda Commenti disabilitati su Rischio residuo di tromboembolismo venoso ed embolia polmonare, quali i suggerimenti?
Augusto Zaninelli
the System Academy, Firenze
Continuare a tempo indeterminato la terapia anticoagulante orale dopo un evento di trombosi venosa profonda ed embolia polmonare o sospendere la terapia specifica dopo un certo periodo, variabile a seconda delle condizioni cliniche e non somministrare più nulla?
Lo stato dell’arte attuale della gestione clinica del paziente che ha manifestato una trombosi venosa profonda rivela in letteratura che, a due anni dal primo evento di TEV, l’incidenza di episodi recidivanti è contenuto ben al disotto del 5%, mentre la sindrome post trombotica (che a sua volta può dare ulcere croniche venose), a 24 mesi dall’evento trombotico, riguarda il 20-30% dei pazienti con terapia elastocompressiva, presidio indispensabile per ridurre la pressione venosa, limitando i danni meccanici prodotti dalla ipertensione venosa sulla parete e sulle valvole venose, ma privo di una efficacia diretta sulla intensità della risposta infiammatoria indotta non solo dalla ipertensione venosa, ma anche e soprattutto dai processi di trombolisi e ricanalizzazione del vaso colpito da trombosi, soprattutto in presenza di residui trombotici che funzionano da stimolatori della risposta infiammatoria endoteliale.
A questo punto, risulta abbastanza facile suggerire di porre il paziente in trattamento anticoagulante orale per sempre, ma una raccomandazione deve tener conto anche del bilancio fra benefici indotti dalla terapia e potenziali effetti collaterali o dannosi della stessa.
Se per trattamento anticoagulante orale si intende il warfarin, dopo un anno di terapia non si ha più la certezza che i benefici siano maggiori dei rischi di sanguinamento maggiore o minore che sia. A ciò si aggiungono le ripercussioni sulla qualità della vita come la necessità del monitoraggio diretto su un campione di sangue, l’impossibilità di associare alla TAO verdure, altri cibi, farmaci, senza contare il rischio in caso di emergenza, data l’emivita lunga del dicumarolico.
Se per trattamento anticoagulante si intende la somministrazione degli anticoagulanti diretti, siano essi inibitori della trombina o del fattore X° attivato, il profilo di sicurezza è decisamente maggiore, ma i rischi di sanguinamento in caso di emergenza, anche se contenuti dalla breve emivita e dalla attuale disponibilità di antidoti, sono lo stesso aumentati, rispetto a non predisporre specifiche terapie. I costi di gestione, poi, impongono una adeguata riflessione in tema di risorse economiche limitate e di razionalizzazione della spesa sanitaria, in base ad una rigida applicazione dei concetti di appropriatezza.
A ciò si aggiunge l’incertezza dei consigli sulla durata della terapia anticoagulante orale, per la quale non vi sono in letteratura evidenze robuste.
La questione è controversa e le linee guida CHEST hanno cercato di dare delle indicazioni, distinguendo però due tipologie di pazienti. Infatti, nei pazienti con trombosi venosa profonda prossimale secondaria e/o embolia polmonare è raccomandata la terapia anticoagulante orale per 3 mesi e poi stop (Grado 1B), mentre nei pazienti con trombosi venosa profonda prossimale non provocata (idiopatica) e/o embolia polmonare, che abbiano un rischio basso o moderato di sanguinamento, si raccomanda una terapia anticoagulante continuativa, senza predeterminarne a priori, la fine (Grado “B).
La figura 1, modificata da Prandoni et al., Haematologica 2007 evidenzia la differenza del rischio di recidiva fra le forme idiopatiche e quelle secondarie, mentre la Tabella 1 mostra i criteri per terminare la terapia anticoagulante 3 mesi dopo il primo evento e quelli, invece per protrarla più a lungo.
FIGURA 1
TABELLA 1
In alcune tipologie di pazienti, quindi, è lecito pensare a terapie a lungo termine di tipo alternativo, che i dati della letteratura internazionale suggeriscono come valide, sicure ed efficaci.
E’ il caso, ad esempio, del sulodexide e dello studio SURVET.
L’impego del sulodexide ha aperto un nuovo scenario per la gestione della prevenzione delle recidive dopo una trombosi venosa profonda alla dose di 500 U/BID.
Come ogni trattamento che si deve protrarre a lungo nel tempo, il Medico, deve valutare il rapporto fra i benefici della terapia ed i rischi di possibili effetti collaterali o indesiderati, nella moderna logica della personalizzazione estrema delle cure e della cosiddetta “Medicina di Precisione”.
Il rischio di sviluppare una trombosi venosa ricorrente e quello di andare in contro a sanguinamenti maggiori dovuti alla terapia, disegnano un profilo individuale di pazienti che potrebbero particolarmente giovarsi della terapia a lungo termine con sulodexide, da iniziare dopo due mesi di terapia anticoagulante orale legata alla fase iniziale dell’evento.
Le caratteristiche di questi pazienti potrebbero essere:
Altre caratteristiche potrebbero essere quelle di trovarsi a basso rischio di sviluppare trombosi ricorrenti ma di preferire lo stesso una protezione efficace e sicura con un farmaco.
Anche i pazienti molto anziani potrebbero giovarsi della terapia con sulodexide, così come quelli con una trombosi venosa distale ricorrente oppure una trombosi superficiale ricorrente non legata alle varici.
Infine, anche coloro che nella prevenzione delle recidive di trombosi venosa profonda, volessero praticare degli sport potenzialmente a rischio di traumi maggiori potrebbero assumere il farmaco a scopo preventivo, senza esporsi al rischio di emorragie.
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Professore di Medicina Generale Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia Università degli Studi di Frenze Specialista in Medicina Interna Specialista in Cardiologia European Hypertension Specialist
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