Ultimo aggiornamento 07/11/2020 12:00
Lug 14, 2019 Gaetano D'Ambrosio Novità dalla ricerca, Novità Diabete, Novità Homepage Commenti disabilitati su Controllo intensivo della glicemia nei pazienti con diabete di tipo 2 – follow-up di 15 anni
Il follow-up a lungo termine del classico studio UKPDS aveva dimostrato che gli effetti cardiovascolari di un trattamento farmacologico intensivo e di uno stretto controllo metabolico del diabete tipo 2 si mantengono a distanza di anni, anche dopo che il trattamento intensivo è cessato. Tale fenomeno è stato indicato col termine “effetto memoria”.
Più recentemente gli studi ACCORD, ADVANCE e VADT hanno fallito nel dimostrare un beneficio significativo in termini di eventi cardiovascolari di un controllo metabolico più serrato.
Dopo la pubblicazione dei risultati iniziali gli autori dello studio VADT hanno pubblicato i risultati di un follow-up a 10 anni che documentavano una riduzione significativa del 17% degli eventi cardiovascolari. Nel presente studio sono riportati i risultati relativi al follow-up a 15 anni dei 1655 partecipanti allo studio dei quali 1391 avevano acconsentito a fornire ulteriori informazioni cliniche e sulla qualità della vita.
Durante la fase iniziale di intervento dello studio VADT, della durata mediana di 5.6 anni, il trattamento intensivo aveva determinato valori medi di emoglobina glicata inferiori di 1.5 punti percentuali rispetto al trattamento convenzionale. La differenza si era progressivamente annullata dopo il termine della fase di intervento (linea tratteggiata verticale nella figura).
Durante l’intero follow-up di 15 anni (fase di intervento più osservazione post-trial) l’outcome primario dello studio, composto da infarto miocardico non fatale, ictus non fatale, incidenza o peggioramento di scompenso cardiaco, amputazione per gangrena ischemica e morte per cause cardio-vascolari, risultava non significativamente ridotto (-9%) nei pazienti trattati in modo intensivo rispetto al gruppo di controllo.
Un beneficio statisticamente significativo (-17%) si osservava nei primi 10 anni corrispondenti al tempo in cui si era verificata una separazione dei livelli di emoglobina glicata nei due gruppi; tale benefico, però, non si manteneva negli ultimi 5 anni quando le concentrazioni di glicata divenivano sovrapponibili.
Non si osservavano differenze significative a carico degli outcome secondari: complicanze maggiori del diabete, morte per cause cardio-vascolari e mortalità per tutte le cause. Anche la qualità delle vita risultava sovrapponibile nei due gruppi.
Gli autori concludono affermando che il trattamento ipoglicemizzante intensivo produce un beneficio in termini di eventi cardio-vascolari soltanto nel periodo in cui la concentrazione di emoglobina glicata si mantiene più bassa e che, pertanto, non vi è evidenza di un “effetto memoria”.
Questa osservazione contraddice i risultati degli studi DCCT e UKPDS che avevano documentato un effetto memoria rispettivamente in soggetti con diabete tipo 1 e tipo 2 di recente insorgenza.
Per spiegare questo fenomeno si può ipotizzare che quando si interviene su pazienti con malattia diabetica diagnosticata da molti anni, il processo aterosclerotico è già talmente avanzato da vanificare l’effetto di un controllo metabolico intensivo il quale, invece, potrebbe avere un effetto protettivo se attuato in soggetti con diabete all’esordio. Se tale ipotesi è corretta, emerge un ulteriore motivo per diagnosticare precocemente e trattare tempestivamente il diabete mellito all’esordio, in una fase che generalmente consente, per la più giovane età dei pazienti e la minore incidenza di malattie croniche concomitanti, un trattamento più aggressivo.
Inoltre, gli studi DCCT e UKPDS sono stati eseguiti in un periodo in cui l’uso delle statine era meno diffuso e gli obiettivi del trattamento ipotensivo erano molto meno ambiziosi. E’ quindi possibile che, nei pazienti attuali, sottoposti ad un trattamento più aggressivo dei fattori di rischio, risulti più difficile determinare un ulteriore beneficio attuando un controllo metabolico più stretto.
Infine, bisogna considerare che, dall’epoca in cui sono stati attuati gli studi ADVANCE, ACCORD e VADT, la terapia del diabete mellito è cambiata con l’emergenza di nuove classi di farmaci, quali gli incretino-mimetici e le glifozine che hanno mostrato un effetto cardio-protettivo mentre le terapie precedenti hanno un effetto neutro o negativo.
Il problema di come e fino a che punto trattare il paziente con diabete mellito tipo 2 con farmaci ipo-glicemizzanti resta, quindi, tuttora aperto.
Gli standard italiani 2018 per la cura del diabete mellito raccomandano (evidenza 1B) “il limite di 48 mmol/mol (6.5%) purché tale livello sia raggiungibile con farmaci che comportano un basso rischio di ipoglicemia” e stabiliscono obiettivi meno stringenti per i pazienti che devono essere trattati con insulina, sulfaniluree o glinidi e per i pazienti più anziani e con co-morbilità.
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