Ultimo aggiornamento 07/11/2020 12:00
Ott 14, 2020 Cardiotool Storia della cardiologia 0
a cura di Angelo Chiaretti
Presidente del Centro Studi Danteschi “San Gregorio in Conca”
angelo.chiaretti49@gmail.com
La lezione più importante che l’uomo possa imparare nella vita non è che nel mondo esiste il dolore, ma che dipende da noi trarne profitto e trasformarlo in gioia.( R.Tagore)
INDICE
Presentazione di S.E. Francesco Lambiasi, Vescovo della Diocesi di Rimini.
Prefazione del Prof. William Raffaeli, Primario di Algologia presso Ospedale Infermi di Rimini.
Introduzione.
Scheda Biobibliografica Dantesca.
Capitolo Primo : Fragilità e Affidamento in tempi di Coronavirus.
Capitolo Secondo: Le malattie nella Divina Commedia.
Capitolo Terzo: Dante medico, speziale ed erborista.
Capitolo Quarto: Dante mago ed alchimista.
Bibliografia.
ABSTRACT
DANTE MEDICO…. IN TEMPO DI CORONAVIRUS
Fragilità, affidamento e terapia del dolore nella Divina Commedia
Ciò che distingue Dante da ogni altro poeta è questa attività segreta della parola, la freschezza della sua poesia, o meglio la vivezza primaria dell’incontro con la sensibilità del lettore, la quale dipende per gran parte da un fervore operante a cui siamo cooptati e associati, come anime nella mischia e nell’attesa (Mario Luzi). La narrazione dantesca della discesa di un uomo vivo nel regno dei morti è in-centrata su un doppio rapporto realtà-immaginazione[1], che l’Alighieri chiama Postille e Sembianti nel canto III del Paradiso, quando incontra l’amata Piccarda Donati nel Cielo della Luna:
Quali per vetri trasparenti e tersi,
o ver per acque nitide e tranquille,
non sì profonde che i fondi sien persi,
tornan d’i nostri visi le postille
debili sì, che perla in bianca fronte
non vien men forte a le nostre pupille;
tali vid’ io più facce a parlar pronte;
per ch’io dentro a l’error contrario corsi
a quel ch’accese amor tra l’omo e ‘l fonte.
Sùbito sì com’ io di lor m’accorsi,
quelle stimando specchiati sembianti,
per veder di cui fosser, li occhi torsi.[2]
Le postille di cui si parla nel canto, secondo i più antichi commentatori, come l’Ottimo, Benvenuto Rambaldi e Cristoforo Landino, sarebbero semplici immagini riflesse ma io penso, che a centrare il bersaglio sia stato il Berti[3], che con felice intuizione le intende, in modo molto più ampio, come figure e rappresentazioni.
Quanto agli specchiati sembianti (si colga la bellezza dell’ambivalenza del termine dantesco), si tratti di un’evidente appropriazione del termine provenzale semblan, al quale Dante approda già dai primi tempi de Il fiore (e anche nel Detto d’amore), e li intende come la pietra di volta che forma l’arco del ponte, capace di trasumanare[4] dati storici e immanenti, per farli risplendere di luce celeste, alla stessa maniera di come un esperto giocatore di scacchi (e Dante lo fu![5]), animato da una fortissima ed empatica preoccupazione didattica, sfida un giovane allievo per svelargli le mosse vincenti (la pascoliana Minerva oscura).
Con questa forma mentis, dunque, mi sono mosso nel gran mare della medicina medioevale, partendo dagli studi che Dante condusse (pienamente immerso nell’idea di fragilità e affidamento che gli veniva dalla Lettera di S.Paolo ai Romani : nonostante il numero di papi, cardinali e sacerdoti scarventati fra i dannati[6], Dante fu un buon cristiano.) prima a Bologna e poi a Padova, circa le malattie che imperversavano nel suo tempo e le terapie che guarissero o almeno dessero qualche sollievo ai pazienti. Mi è piaciuto, perciò, presentarlo come il medico che condivide i momenti di malattia, cura e guarigione (corrispondenti a Inferno-Purgatorio-Paradiso).
La ricerca erboristica, descritta nel Terzo Capitolo, che gli fa attraversare in lungo ed in largo la Pineta di Ravenna, in compagnia degli amici migliori, per preparare impiastri[7]e decotti, necessari a curare il morbo e lenire il dolore (concetto modernissimo di cui il prof. William Raffaeli, presidente di ISAL, tratta nella Presentazione), è un esempio del suddetto rapporto postille-sembianti: febbre terzana e quartana, malaria, peste, difficoltà respiratorie e cardio-circolatorie, sistema riproduttivo, ansia, tremore, mal di testa, problemi della vista quanto altro di nuovo andava affacciandosi in campo terapeutico, compresa la vietatissima chirurgia. Al loro interno, con un balzo vichiano neppure velato, il discorso sulla peste conduce il lettore fino ai nostri giorni, per accomunarla all’epidemia da Coronavirus e riflettere su un modello di società che, mutatis mutandis, cioè fatte le dovute proporzioni spazio-temporali, rende profetica l’opera dantesca e ne fa un manuale per affrontare con animo coraggioso e competenza medica la peste del Terzo Milllennio !
Il 25 Marzo di ogni anno a venire è stato universalmente scelto per la celebrazione della vita e delle opere di Dante Alighieri (Firenze1265-Ravenna 1321).
Il giorno ed il mese sono stati scelti in quanto indicativi del momento in cui Dante ha collocato nella Domenica 25 Marzo l’inizio del suo straordinario viaggio da vivo nel regno dei morti, che sarebbe terminato Sabato 31 Marzo.
In particolare, la scelta per il cosiddetto DANTEDI’ (denominazione elaborata dall’Accademia della Crusca, massima istituzione in termini di italianistica) è stata fatta seguendo opportunamente il Calendario Fiorentino impostato ab Incarnazione Christi, allora vigente in Firenze, rispetto a quello tradizionale incentrato a Nativitate Christi.
Del resto, anche Giovanni Boccaccio nel suo Comento alla Comedia, dice che Dante nella presente fantasia entrò il 25 di marzo.
E’ anche il momento in cui papa Bonifacio VIII, per la prima volta, ha chiamato a raccolta i pellegrini cattolici per il Grande Giubileo romano ed a tutti appare chiaro, ormai, come i sette giorni del viaggio oltremondano di quel fiorentino di nascita ma non di costumi costituiscano l’iter salvificus per eccellenza. La gioia d’esser scampato alla selva selvaggia e aspra e forte, sfuggendo per di più all’attacco concentrico di lupa, leopardo e leone, suscita nel profondo del cuore del Poeta un’euforia che possiamo definire come una piacevole vertigine conseguente al superamento della perdizione. E così, alle prime luci del mattino di mercoledì 28 marzo, lo ritroviamo nuovamente impegnato ad attraversare una seconda selva, la divina foresta spessa e viva che forma il Paradiso Terrestre, in cima alla montagna del Purgatorio. Davanti a sé non ha più le tre fiere, bensì Matelda, la bella donna che, sull’altra sponda del fiume Letè, coglie fiori e va cantando il salmo Beati quorum tecta sunt peccata.
A detta di molti commentatori e soprattutto di Giovanni Pascoli, che tanta parte dei suoi studi ha dedicato a scoprire il velame de li versi strani dell’opera dantesca, l’ispirazione sarebbe venuta a Dante nel corso della frequentazione della pineta di Ravenna, molto prima del 1319, anno della sua definitiva residenza in Romagna. Tale la datazione risulta plausibile particolarmente alla luce del fatto che il nucleo compositivo iniziale della Commedia dovrebbe essere costituito proprio dai canti conclusivi del Purgatorio. Matelda, evidentemente, non rappresenta per l’Alighieri il premio maggiore relativo al pentimento ed alla cancellazione delle sette “P” che l’angelo guardiano gli ha impresso sulla fronte prima di oltrepassare il serrame della porta purgatoriale. La meta da raggiungere è, invece, Beatrice, quella beata beatrix che, a quel punto, s’incarica di guidarlo fino alla Candida Rosa, in cui risiedono i beati del Paradiso Celeste, che però, non va considerata come un singolo fiore ma, ancora una volta, una vera e propria terza selva, fatta di rose, il convento delle bianche stole!
Perché, dunque, introdurre attraverso le ampie metafore di tre selve un lavoro di indagine in cui si parla di Dante medico? La risposta è presto detta: innanzitutto, la Commedia costituisce, di per sé, una grande silva, (termine con cui durante il Medioevo, ma anche successivamente, venivano definite le opere che oggi chiamiamo interdisciplinari o modulari), al cui interno fosse possibile soddisfare non solamente le nuove ansie poetico-letterarie del momento, ma anche approdare al mondo della politica e dell’innamoramento (mistico o sensuale), della gastronomia o della sociologia, della religione o della medicina, appunto: febbre terzana e quartana, malaria, peste, problemi di respirazione e difficoltà cardio-circolatorie, sistema riproduttivo, ansia, tremore, mal di testa, erboristeria e quanto altro di nuovo andava affacciandosi in campo terapeutico, compresa la vietatissima (fino a quel momento) chirurgia.
In tale percorso incontriamo un Alighieri sfinito dal dolore, dalla sofferenza fisica e morale, affermata ispirandosi al celebre aforisma che Virgilio fa gridare a Didone, sedotta e abbandonata da Enea il troiano: Vivit sub pectore vulnus!
In effetti, la ferita (fisica e morale) di Dante dovette continuare a sanguinare anche quando, nella pace di Ravenna, sembrava guarita: gli mancavano la famiglia, gli amici, Firenze, l’impegno politico, gli amori angelicati e quelli petrosi.
Del resto, risultava abbastanza facile lasciarsi andare in un periodo in cui dominava la Pedagogia della sofferenza, rilanciata con tutta l’autorità del II Concilio di Lione (1274): il male conduce al bene, la fine è sempre un nuovo inizio, il dolore della malattia porta alla guarigione ed al sollievo !
Ecco perché, in occasione delle celebrazioni del VII Centenario della morte Dante Alighieri (1265-1321), la fama di taumaturgo di cui egli gode da sempre risulta preziosa nella lotta che ognuno di noi conduce contro l’attuale pandemia: i Vangeli di Cristo e la Divina Commedia dantesca siano la parola a cui affidarsi ed il vincastro al quale appoggiarsi nel nostro cammino quotidiano per i secoli dei secoli !
Infine, il volume Dante medico in tempo di Coronvirus sia la prima pietra di un Progetto Internazionale Dantesco, fondato su un Portale Web (nato dalla collaborazione attenta ed amichevole di Enzo Alessandrini Biondi di Medifarma), che unisca quanti vedono nell’Alighieri il nocchiere che, in gran tempesta (Purgatorio VI) sa condurre la nave in porto.
[1] Nel senso delle Imagini magistralmente realizzate dal pittore Amos Nattini (1892-1985 ) nei tre volumi della monumentale illustrazione della Commedia (1923-1941).
[2] Paradiso, III, 10-21.
[3] G.L. Berti (1696-1766), frate agostiniano, pubblicò numerose opere di teologia e letteratura.
[4] Paadiso I, 70.
[5] Ivi, XXVIII, 91-93.
[6] La definizione è di S.E. Francesco Lambiasi, Vescovo della Diocesi di Rimini, di cui alla Presentazione.
[7] Rime LXII,5 et alii.
PRESENTAZIONE
Voglia il cielo che tu possa riconoscere qual è quella parola, quel messaggio di Gesù che Dio desidera dire al mondo con la tua vita. (Papa Francesco)
Dante ieri. Che la vera poesia abbia sempre il carattere di un dono e che pertanto essa presupponga la dignità di chi lo riceve, questo è forse il maggior insegnamento che Dante ci abbia lasciato. Egli non è il solo che ci abbia dato questa lezione, ma fra tutti è certo il maggiore. E se è vero ch’egli volle essere poeta e nient’altro che poeta, resta quasi inspiegabile alla nostra moderna cecità il fatto che quanto più il suo mondo si allontana da noi, di tanto si accresce la nostra volontà di conoscerlo e di farlo conoscere a chi è più cieco di noi.
Così affermava Eugenio Montale in un suo discorso conclusivo al Congresso per il settimo centenario della nascita di Dante, tenutosi a Firenze il 24 aprile 1965. Vero, inconfutabilmente vero: il maggiore insegnamento di Dante è che la poesia è un dono. E col passare del tempo la nostra convinta, appassionata volontà di conoscerlo e di farlo conoscere va registrando una impennata esponenziale.
Dante oggi. Questo monumentale saggio di Angelo Chiaretti esce nel corso del Dantedì, nella ricorrenza del VII centenario della morte del sommo poeta, mentre continua a furoreggiare l’implacabile violenza della pandemia del Covid-19, e costituisce pertanto la puntuale riprova del succitato maggiore insegnamento di Dante. Lo attesta esplicitamente il titolo del presente volume: Fragilita’ e affidamento – Malattia e terapia del dolore nella Divina Commedia in tempo di Coronavirus.
Colpisce l’audacia dell’Autore: mettere in correlazione il poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra – la Comedia, definita Divina dal Boccaccio – con la drammatica fragilità umana, così spietatamente evidenziata dalla più devastante pandemia della storia, poteva esporre al rischio di forzature anacronistiche, come pure di cortocircuiti ermeneutici. Da non sottovalutare neanche il rischio di pericolosi fraintendimenti, vuoi del messaggio delle tre Cantiche, vuoi della ‘lezione’ del micidiale, microscopico, ma catastrofico virus. Che è, sì, seicento volte più piccolo del diametro di un capello umano, ma che ha purtroppo già prodotto un milione di vittime, una cifra spaventosa che l’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiara destinata a reduplicarsi paurosamente nel giro dei prossimi mesi.
Angelo Chiaretti dimostra agevolmente di superare in modo accorto ed efficace gli scogli suddetti e indica nell’affidamento l’antivirus per evitare l’ecatombe universale. Qui il suo ricorso al Divino Poema non risulta affatto di tipo miracolistico o pateticamente fideistico. Lo possiamo piuttosto a giusto titolo denominare Umanesimo Dantesco, che, mentre non sminuisce affatto la miseria umana – da cui è contagiata anche l’istituzione Chiesa – vedi papi e cardinali scaraventati dall’Alighieri all’Inferno – non minimizza neanche la misericordia divina. Come afferma Manfredi nel Canto III del Purgatorio: Orribil furon li peccati miei / ma la bontà divina ha sì gran braccia / che prende ciò che si rivolge a lei.
Dicevo dell’Umanesimo di Dante. E’ l’Umanesimo cristiano. Il professor Chiaretti chiede un assist al cardinale Ratzinger nel libro Introduzione al Cristianesimo, il quale, scrivendo dello Scandalo del Cristianesimo, cioè di Cristo Figlio di Dio fatto uomo e quindi del significato dell’essere umano che va ricercato non nel mondo delle idee ma nel volto di un uomo, rammenta la concretezza di questo pensiero nella conclusione della Divina Commedia di Dante: Dentro da sé del suo colore istesso, / mi parve pinta della nostra effigie, / per che il mio viso in lei tutto era messo. Dante, contemplando il mistero di Dio, scorge con estatico rapimento la propria immagine, ossia un volto umano, esattamente nel centro dell’abbagliante cerchio di fiamme formato da l’amore che move il sole e l’altre stelle. Incontrando i partecipanti al Congresso Cor unum, organizzato dal Pontificio Consiglio, papa Benedetto XVI aveva affermato: Ancora più sconvolgente di questa rivelazione di Dio come cerchio trinitario di conoscenza e amore è la percezione di un volto umano – il volto di Gesù Cristo – che a Dante appare nel cerchio centrale della Luce. Se da un lato nella visione dantesca viene a galla il nesso tra fede e ragione, tra ricerca dell’uomo e risposta di Dio, dall’altro emerge anche la radicale novità di un amore che ha spinto Dio ad assumere un volto umano.
Fragilità. La pandemia ci ha costretti a riconoscere la nostra umanità ‘umana’: povera, precaria e limitata. Una fragilità salvata dal Dio di Gesù di Nazaret non dall’esterno, ma abitandola dal di dentro. E’ la strada dell’incarnazione: Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi, canta Giovanni nel vertiginoso prologo al suo Vangelo (1,18). E Paolo commenta: Conoscete la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà (2 Corinti 8,9). E nella Lettera agli Ebrei leggiamo testualmente: Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze (astheneiais): egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi (4,15). Nel sussultante inno alla Vergine, il Poeta canta estasiato: Tu se’ colei che l’umana natura / nobilitasti sì, che ‘l suo fattore / non disdegnò di farsi sua fattura.
Affidamento. Questo è il Dio affidabile: un Figlio di Dio che si fa uomo per fare dell’uomo un figlio di Dio. Un Dio che della fine della nostra vita fa l’inizio di una vita che solo amore e luce ha per confine. Ma l’affidamento al suo amore non è qualcosa di magico che ci deresponsabilizza. E’ il dramma della libertà. Di quella libertà ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta.
Sperare dunque si deve. Sperare si può. Come il virus della polmonite interstiziale si trasmette non perché una persona lo studia, ne discute o lo spiega, ma solo se si è contaminati e lo si contagia, così è per il virus della speranza.
Tempo di pandemia, tempo di speranza. Tempo di fragilità, tempo di affidamento. E’ la strada – la diritta via – che Angelo Chiaretti rintraccia nell’opera somma del Sommo Poeta. E che ci incoraggia a percorrere con questa sua opera magistrale: coinvolgente, godibile, invitante. Buona strada!
Francesco Lambiasi
Vescovo della Diocesi di Rimini
PREFAZIONE
Chi mai, tranne gli dei, scorre la vita eternamente senza dolore (Eschilo, Agamennone, 18).
La sofferenza del dolore e la sua cura è il tema che affronta il testo di cui ci accingiamo a parlare – Malattia e Terapia del dolore nella Divina Commedia in tempi di Coronavirus – che già nel titolo traccia il proscenio ed i personaggi in cui ci addentreremo.
L’incontro con il libro è avvenuto tramite la comunicazione scarna e calorosa di una stretta di mani in una cantina mondainese dedita ai sapori delle antiche stirpi, definendo questa premessa che il tutto avvenne nel tempo antecedente il sorvolare sulle nostre vite del Coronavirus, la cui sigla quale antico ideogramma biblico ne anticipa, quale presagio, la durezza: SARS-CoV-2.
La mano era quella del professor Angelo Chiaretti, di cui mi onora l’amicizia mentre della sapienza dantesca chi si appresta a leggere il testo penso molto sappia o saprà stimare. L’amico Chiaretti ha sempre perseguito gli studi danteschi, inerpicandosi nelle ombre del Poeta a pochi conosciute per svelarne conoscenze e stupori nuovi, facendo intravedere quali e quante sapienze si muovevano in tempi considerati bui solo per non volerne vedere le luci. Un libro dedicato al Dante medico che non disdegnava il confronto con il dolore e il suo lenimento, opera primaria di cura non di palliazione, in un tempo in cui gli umani dolori erano eventi ordinari della vita quotidiana (Bellucci G. e Tiengo M., 2005. La storia del dolore. Momento medico). E’ su questa rappresentazione della malattia che incontriamo il Dante filosofo e medico, come il secolo voleva, che ci annuncia la condizione di sofferenza dell’uomo relegato dalla natura alle stigmate del dolore. Il Dolore, segno indelebile dell’allerta per tenersi stretta la vita o almeno una sua parvenza nei tranelli di molteplici traumi, guerre o pestilenze e malattie.
Credete forse che gli uomini con i corpi mutilati dalle spade o trafitti dalla benedizione maledetta del Fuoco di Santo Antonio, o dalle nevriti delle piaghe vaiolose che deturpavano e bruciavano la sensibilità dell’alterato corpo, non avvertissero anche loro un dolore tragico e permanente, cioè quello che oggi noi chiamiamo dolore cronico ? Indipendentemente dal nome. esso contiene e conteneva la stessa tragedia di vita!
La storia dell’uomo è ritmata dal dolore, le cui grida si è cercato sempre di placare
mediante le virtù curative tratte da quell’immensa farmacia che è la natura, condita dalla sapienza e abilità or dei saggi e medici or delle fattuchiere e spiriti.
Leggiamo ora la poetica rappresentazione del concetto filosofico di dolore nei versi danteschi.
Trattando della grandezza di Aristotele, il Maestro di color che sanno, Dante precisa che Epicuro, veggendo che ciascuno animale, tosto ch’è nato, è da natura dirizzato nel debito fine, che fugge dolore e domanda allegrezza, quelli disse questo nostro fine essere voluptade (non dico “voluntade”, ma scrivola per p), cioè diletto sanza dolore. E però che tra ‘l diletto e lo dolore non ponea mezzo alcuno, dicea che “voluptade” non era altro che non dolore.
Come non restare meravigliati per questa dissertazione sul senso del dolore lucida anticipatrice di verità scientifiche divenute attuali in virtù di strumentazioni che indagano la neurofisiologia (come trasmettono e parlano tra loro nervi e cellule) del cervello ove appare come il dolore trasformi la coscienza di sé e divenga conoscenza della realtà, pur ancorato al desiderio necessario di liberta vitale. Un bisogno insito nel codice degli esseri viventi: non ho mai ben compreso se nella tradizione biblica il ricordare all’uomo che questo mondo sarà per lui fonte di dolore fin dalla nascita e ne traccerà assieme al sudore del pane la sua vita, derivi da un ammonimento teso a placarne il timore della prova o rafforzarne l’istinto di evitarne e prevenirne la sfida. Il Dolore ha impresso nel nome l’essenza di sé che diviene consapevolezza del proprio limite nell’attimo stesso in cui se ne sperimenta l’essenza sia per tramite di una puntura al dito, una caduta sul selciato, un taglio sulla pelle, un fuoco bruciante o il gelo che scotta. Tante sono le prove con cui si avvezza l’uomo ad ascoltare il monito del dolore …Io sono colui che turba il tuo corpo e spaventa la tua mente, ricordati ! Il dolore nei secoli è stato un ingombrante compagno di viaggio per uomini e bestie ( e piante, sembra) per cui è naturale che vi sia sempre stato un uomo o donna prescelti a lenirne la presenza e curarne i danni.
Santi e streghe, demiurghi del bene e del male, dottori di antiche sapienze sulla natura dei mali e sui rimedi, monaci istruiti nei chiostri, maghi arguti vocianti nelle piazze, cerusici addestrati a seguaci di Esculapio o estrattori di denti e distrattori di pietre, coltivatori di spezie nei Giardini dei Semplici, medici esperti di somnifere spugne intrise con spiriti per poi includere nel nostro viaggio amanuensi della parola, che nel vagare il mondo intriso di tristo sale salendo le scale, mormoravano versi di sapienza per la natura della cura.
In questo e quel lontano mondo abitato da credenze e speranze vi era la figura del medico a cui Dante cede a causa dell’eccezionale credito di cui godeva l’arte medica. Non è un caso, ad esempio, che le raffigurazioni dei grandi Maestri (Galeno, Ippocrate ecc.), oltre a ritrarli con il classico abito rosso bordato di ermellino, li presentano con una sfera in mano, inconfondibile gesto solitamente avvicinato alla figura del Cristo!
Era quindi un grande privilegio appartenervi e personalità eccellenti, quale Dante era, abbeverato alla smisurata coscienza di sé e rapito dalla necessità del sapere, ne subivano il fascino attrattivo insinuandosi, come ci dice il Chiaretti, nella sua mente: mi vado convincendo che l’adesione di Dante Alighieri all’Arte dei Medici e Speziali debba assumere questo significato di appartenenza non ad una Corporazione qualsiasi, bensì ad una sfera della scienza che, ex abrupto, cioè di per sé, comportava modi di pensare ed atteggiamenti di tipo elitario ed esoterico. Confessando un tratto presente nella modernità del dibattito sulla professione e la passione del curare per compassione quale missione della vita che ….. non porta pane, percui Dante sceglie una via terza dall’abbandono per non cedere al bisogno: Non si dee chiamare vero filosofo colui che è amico di sapienza per utilità, siccome sono li legisti, medici e quasi tutti li religiosi, che non per sapere studiano, ma per acquistare moneta e dignitade.
Nello stesso momento riflette sulla sua appartenenza alla Corporazione di Medici e Speziali, che ha l’altissimo privilegio di mostrare nel proprio stemma, come protettrice, in campo vermiglio S.Maria col suo figliolo Cristo in collo e il motto Salus infirmorum (Guaritrice dei malati) mentre le altre Corporazioni si fregiano di semplici santi! Così Dante, per celebrare degnamente il proprio ingresso fra tanta scienza e fede religiosa, ha composto alcuni versi mirabili che vengono recitati come preghiera dagli associati stessi:
Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’etterno consiglio,
tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ‘l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.
Nel ventre tuo si raccese l’amore,
per lo cui caldo ne l’etterna pace
così è germinato questo fiore.
Qui se’ a noi meridïana face
di caritate, e giuso, intra ‘ mortali,
se’ di speranza fontana vivace.
Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia e a te non ricorre,
sua disïanza vuol volar sanz’ ali.
La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fïate
liberamente al dimandar precorre.
In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s’aduna
quantunque in creatura è di bontate.
Di quest’uomo, Dante transumante tra le diverse virtù del sapere e del fare, ci parla dunque il suo discepolo e maestro di studi sapienti, che trascorrendo sulla collina di Mondaino le notti e i giorni si ripone sempre a estrarre dai nascondigli delle pagine e dalle rupi incise la “Storia” di chi ci fu Padre nella lingua che ancor ci appartiene.
Il Maestro Angelo Chiaretti ben sa come della pietra filosofale unta di dotta cultura domarne il vanto per divenire colto e sapiente, come ai tempi serviva per la propria gloria. Se si discute su Dante non può sfuggire il nome di Chiaretti, esperto che ne illumina i chiaroscuri lati che nessuno ricordava il Poeta potesse avere in dono oltre alla lingua.
In questo prezioso volume, quindi, grazie alla virtù dell’amico Angelo sapremo come Dante studiò i testi dei Maestri, le nature delle piante e degli infusi da cui sanno trarne seme lenitivo per i dolori, quei dolori che nessun uomo vorrebbe nella vita provare, per cui per domarne le doglie s’industria tra piante lenitive ed estratti di oppio che fin dall’antichità, come ci racconta l’omerica narrazione, ha aiutato l’uomo a sopportare pene sia psichiche che fisiche. Così, infatti, i mangiatori di Loto (lotofagi) dimenticavano nell’ebbrezza dell’oppio le sofferenze del vivere quotidiano.
Dopo lunghe e sofferte riflessioni circa la professione da intraprendere, Dante ha deciso per quella medica, poiché gli consente di muoversi all’interno di tre dimensioni caratteristiche di chi, all’alba del XIII secolo, si occupa della lotta alle malattie: essere medico-filosofo e teologo insieme.
Molto si è discusso del motivo per cui egli sia collocato, quasi isolato, fra il filosofo stoico Zenone e il poeta Orfeo: secondo l’opinione dei commentatori più antichi, Dante avrebbe voluto affermare una subordinazione dell’erboristica alla medicina vera e propria, della quale sono citati, di lì a qualche verso, i rappresentanti più illustri, come Ippocrate e Galeno, che furono uno dei punti di riferimento per l’arte medica durante tutto il Medioevo.
Il nostro Dante ha della Medicina una visione onnicomprensiva di scienze che nel Medioevo travalicavano le specifiche competenze; potremmo dire con un linguaggio attuale che aveva una visione olistica polivalente e multidisciplinare.
Possiamo quindi valutare questa rilevante illuminazione del Dante, intellettuale del suo tempo che percepisce l’urgenza di trasformare l’antico mondo delle tradizioni accolte quale atto di fede a una nova filosofia dei mestieri sanitari guidati dalla sapienza anticipatrice della luce umanistica, per cui l’uomo può trasformare la natura osservandola e sperimentandola per ricavarne migliori doni.
Ben dice Chiaretti: Due grandi stagioni hanno caratterizzato la medicina del Basso Medioevo, in perfetta corrispondenza con i cambiamenti politici ed economici che si registrarono a cavallo del XIII secolo. Fino a quel momento, infatti, le istituzioni comunali, spasmodicamente impegnate nell’opera di consolidamento del sistema mercantile e creditizio avviato all’indomani della bufera millenaristica, non erano riuscite ad affrancarsi dalla tradizione galenico-ippocratica e greco-araba, che trionfavano attraverso la medicina conventuale, per un verso, e gli insegnamenti della Scuola Salernitana, per l’altro.
La traccia della Scuola Salernitana s’intreccia in questo clima di desideri di nuovi saperi in cui l’ homo faber fortunae suae andava consolidando la categoria corporativa dei mestieri nel solco di un secolo in grande mutazione. La Scuola Salernitana è la prima scuola medica costruita per dare struttura metodologica alla didattica in specie, ricomprendendo nella didattica l’ambito chirurgico altrimenti non considerato quale branca della medicina ma solo come un’attività svolta senza alcuna nozione medica ; infatti nel 1231 Federico II nelle sue Constitutiones annota che Nessuno potrà insegnare medicina e chirurgia, se non a Salerno.
Quest’apertura all’ambito chirurgico forse accelera anch’essa gli sforzi dei sapienti a individuare un farmaco in grado di controllare il dolore. Così si affacciano sulla scena medica soluzioni farmaceutiche manipolate dal sapere dell’uomo, la Spongia Soporifera, la cui preparazione prevedeva di immergerla in sostanze narcotiche e di lasciarla asciugare per poi, all’uso, inumidirla con l’acqua e il principio attivo veniva o bevendo il succo o inalandone i vapori. La Spongia è citata tra gli altri anche da Giovanni Bocaccio nella novella dedicata a Matteo Silvatico. La sua composizione era a base di mezza oncia di oppio tebaico, otto di succo della verde erba matala, tre di succo di verde giusquiamo, di succo di mandragola (tratto) dalle foglie spremute , mezza oncia trita, raccogli così per mezzo di una spugna in un’unica pasta e diligentemente lascia asciugare. Quando vorrai farne uso, per un’ora immergila in acqua calda e avvicinala alle narici , ed avvertirai il paziente che da se stesso assorba quell’essenza, per dormire a lungo. Vi sono testimonianze che la stessa derivasse dalla Ypnoticum Auditorium, una ricetta anonima contenuta nel codice 69 di Montecassino del IX secolo (Belucci G. , Storia dell’Anestesiologia , pag 55 ).
Di quella furono principali protagonisti i monaci benedettini che, inebriati dalla fama di gran guaritore riconosciuta a S.Benedetto da Norcia ( 480-547 ), fondatore del loro Ordine, raccolsero l’eredità della sua Regula, avviando, fra Montecassino, Chartres e Tours, la produzione di una vera e propria letteratura incentrata sugli Hortuli, i libri della sapienza medica che indicavano le specie vegetali da coltivare negli orti di conventi e abbazie e con le quali da tempo si andavano preparando sostanze medicamentose. Scorrendo le vite dei più conosciuti monaci bianchi, ci accorgiamo come la loro santità derivasse anche dal fatto di saper curare se stesso e gli altri con quanto offerto da Dio alle sue creature attraverso la natura.
In diversi passi delle opere dell’Alighieri si fa parola delle proprietà medicamentose delle erbe, a cominciare dal riferimento a Dioscoride (I secolo d.C.) che, per aver composto l’enciclopedico e fortunatissimo De Materia medica, può essere considerato il padre della botanica e della farmacopea dell’Era Cristiana. Dante lo incontra nel Limbo, o primo cerchio, all’interno del nobile castello, fra le cui mura vivono i grandi dell’antichità.
Il nuovo corso della vita medioevale fu segnato, infatti, dalla grande attenzione che i religiosi (aggiornando il famosissimo Mens sana in corpore sano romano e ridimensionando la Pedagogia della sofferenza, proclamata da papa Gregorio Magno) riservavano alle cure del corpo, convinti cha la salus animae procedesse parallelamente alla sanitas corporis.
In un salto temporale quale un risveglio da anestesia in cui il tempo perde i suoi contorni, ecco che ci ritroviamo nel tempo di chi ora scrive per tracciare la scena ove il dolore può volgere in tragedia l’altrui vita !
Il Dolore, di cui per professione dal 1978 ho visto dei malati la cognizione e i percorsi che ogni giorno vanno costruite a diga della loro sofferenza; un patrimonio da salvaguardare per rimanere tutti noi vigili a dare lenimento alla sofferenza sia con farmaci sia con compassione e comprensione. L’arte del donare cura appartiene a ogni uomo ed ognuno di noi ogni ne deve conservare la chiave per aprire il suo cuore quando la sofferenza e la malattia lo dovessero chiamare a questo dono e compito.
Ora sapremo ascoltare nelle parole del sapiente Chiaretti come anche Dante avesse in tasca una nozione di quel dono che dispensava nel tempo in cui nei mestieri si miscelavano magie e saperi.
Siamo sicuri che il dolore sia solo dramma e che sia questa la sua intima natura e non possa avere, invece, una natura doppia di Dono e Pena o per meglio definirlo di Dolore Innocente e Dolore Colpevole?
Sul Dolore quale Dono e Pena/Innocente e Colpevole ho discusso durante una mia lettura in cui ho voluto esplorare ed esporre questa natura doppia al Convegno organizzato dal Cortile dei Gentili, struttura del Pontificio Consiglio della Cultura, presso il Polo di Lecco del Politecnico di Milano nel 2015. Che il dolore innocente sia un grande dono lo si capisce riflettendo sulle sue proprietà di torcibudella o urente grido dello scottarsi che altro compito non ha che richiamarci all’urgenza del riparo per immanenza del danno, del rischio, dicendoci del luogo ove si perpetra e del metterci in allerta sull’azione da farsi: togliere la mano dal fuoco, allontanarci dal pericolo, mettersi a riposo o correre dal medico! Nei fatti, difenderci dalle avverse nature del mondo e dell’altrui specie che per vivere devono arrancare i denti nelle carni, staccare colli, spaccare ossa.
Ecco che nella selva della Prefazione vorrei incamminarmi sul concetto di Dolore quale Dono, dunque Innocente ! Potremmo mai superare i rischi se non fossimo dotati di una sapiente antenna che ci avverte, secondo per secondo, quando inciampa il nostro corpo, di quali arterie si chiudano per generare infarti, di quante budella si attorciglino e pietre in calcoli si trasformino a sbarrare il passo aad urina e bile ? Un’antenna di cui ben conosciamo ogni singolo composto, come si forma e come dialoga nelle sue differenti stazioni per trasformare uno spillo in un..Ahi..Ahi, punge!, un calcio in un pianto e un dolore in un allarme che ci invita a stare attenti, allertarci e farci scegliere cosa sia meglio fare, azioni che ritrovano le loro declinazioni nelle virtù dei secoli che le hanno perfezionate: chiamare il medico o poggiare piante sulle ferite o far cantare nenie per allontanare gli spiriti maligni.
Ma ecco che, come nelle favole, anche nella scienza appena si addormentano i buoni, compaiono le streghe cattive, l’altro volto del misfatto a farci soffrire a portarci scompiglio e gettare la nostra vita nella disperazione: il volto del Dolore Colpevole ! Un dolore ribelle alla sua natura buona che si libera di ogni vincolo di scopo e si trasforma, disdegnando la regola e trascendendone il significato, si mette a danza con il male in assenza di ogni fuoco che veramente ci bruci o coltello che ci trafigga ! Ecco che si trasforma l’armonia dei nervi, la magia della chimica buona in una fucina di guerra contro la nostra vita, angosciandoci con la sua presenza continua e difficile da sopportare e altresì spesso da curare: il Dolore Malattia!
La doppia natura del Dolore che, come campanello per la vita, ci insegna a fuggire dai pericoli, monito di allarme salutare, diviene una presenza costante ineludibile da cui non si può fuggire, diviene tortura cioè dolore cronico e quindi stato di malattia! Chi di noi vorrebbe essere torturato, straziato nella carne e bruciato dal fuoco per tutto il tempo dell’unica vita terrena che abbiamo ? Nessuno !
Aristotele definì il dolore un’emozione opposta al piacere, mentre uno dei padri della scienza sul dolore, Patrick Wall, suggerisce che il dolore debba essere considerato uno stato di necessità, come la fame o la sete mentre io aggiungerei che ……il dolore è sia stato di necessità, quando veste i tratti del sintomo indispensabile alla difesa per l’integrità biologica, sia uno stato di inutilità-tragedia quando diviene Malattia Cronica che, persa la qualità di sintomo, resta nuda Malattia, offesa all’integrità della nostra salute. La malattia Dolore è, dunque, una condizione ove il dolore perde ogni connotato di difesa per divenire, invece, unicamente Offesa della nostra salute e disabilita la vita. Una condizione che, biologicamente, nasce dallo scompenso del sistema che prima ci difendeva e ora ci offende. (W.Raffaeli, Du symptôme douleur à la maladie douleur Chronique d’une transformation incertaine, in Revue des Sciences Sociales, 2015, n° 53, Entre douleurs et souffrances, pp 10-16 Raffaeli W. et alii : Pain s a Disease : an overview , in Journal of Pain Research Vol 2017:10 pp 2003-2008).
Una condizione che sempre più sta assumendo i suoi colori e caratteri nei laboratori di ricerca e nella clinica che ne hanno analizzate le numerose e complesse mutazioni chimiche e genetiche che caratterizzano le varie identità e che lo portano a manifestarsi come una nuova e vera condizione patologica che si esprime con differenti voci nei suoi quadri clinici, evidenziando sindromi che generano ancora oggi molta confusione nella pratica medica quotidiana.
Chi studia il dolore dovrà sforzarsi, negli anni futuri, di tracciare al meglio la sua carta d’identità, la condizione di chi lo vive senza essere, troppo spesso, compreso né dai medici né dai propri affetti a causa dell’immaterialità del dolore che non presenta tracce neppure con i più raffinati strumenti della scienza e obbliga ad affidarsi alla parola e fidarci della voce delle persone che ne lamentano il dramma. Se ci affidiamo senza remore al dato febbrile certificato da un termometro, materia inanimata di mercurio, perché non attribuiamo eguale valore certificativo alle parole degli uomini, tratto così distintivo dell’umana specie assieme alle virtù sociali ? Perché temiamo sempre un inganno, una truffa contrariamente a quanto rispettiamo il freddo mercurio e non capiamo che in ogni caso ciò che ci racconta il paziente, è altrettanto vero, anzi più vero, dell’innalzarsi della colonnina di mercurio, poiché quella persona parla della sua esperienza della sua vita e sta a noi non chiuderle la bocca ma comprendere la causa del suo dolore perché sia che esso rappresenti un dolore del corpo (un danno di un organo) sia un dolore della mente (sofferenza della psiche), esso è sempre sofferenza da curare. Cambia solo la regola di cura ma resta la domanda di aiuto cui un medico non deve e non può sottrarsi !
La mole di letteratura sul significato teologico e storico del dolore può aiutare ad elaborare (o ritrovare) un contesto in cui cercare risposte sul significato del soffrire, ma non risolve l’evento immanente che colpisce l’individuo !
Per permettere che la persona malata possa vivere con dignità il proprio destino senza che il dolore insopportabile ne annulli i sensi e che il dolore possa essere un’esperienza salvifica, esso non deve divenire persistente e cronico, in un perdurare tragico e deprivato di senso, perché toglie sentimento al vivente e ne offusca la vitalità verso l’abbandono.
Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno.
Per sviluppare nel malato e nei suoi affetti un motivo di riflessione capace di aprire alla vita e abbandonare la disperazione che rinchiude, anche per il rancore e la rabbia di cure negate o impotenti, è indispensabile lavare le ferite dalla brutalità della tortura fisica e psichica che il dolore può imprimervi se persiste devastante per un tempo troppo lungo per la passione-sopportazione di un uomo.
E’ dunque necessario che la sofferenza dovuta alla malattia-dolore divenga comunicazione cosicché, uscendo dal silenzio, possa produrre senso: per far ciò, il dolore deve essere trasfigurato in una verità biologica, conoscenza medica, come accade per ogni malattia facendogli perdere la sua mitologia e ricomparire nella nuda verità della sua essenza di patologia affinchè possa essere alleviato e curato, se non è possibile guarirlo, che resta il traguardo cui deve tendere ogni azione della medicina.
L’errore da evitare è quello di pensare che la sofferenza e il dolore del paziente siano eventi personali, legati inscindibilmente al senso tragico della malattia, per cui di fronte ad essa la società si debba ritrarre. Il paziente, al contrario, ha necessità durante il suo viaggio e di essere circondato dalle presenze sicure dei propri affetti, in questa comunione di dolore ha necessità di riferimenti di amici ma anche di personale sanitario capace di dialogare con la sua sofferenza e alleviarne l’angoscia non mediante la passiva rassegnazione, ma la lotta per liberare il corpo e mente dalla disperazione dell’evento solitario e dalle atrocità del dolore fisico: ciò deve essere fatto anche dove non è facile ottenere efficacia clinica, poiché si avrà sempre un’efficacia umana.
La comunicazione del dolore è altresì un’esperienza di mutuo aiuto, giacché rispecchia quanto la scienza ha svelato, facendoci comprendere tramite i gesti altrui ciò che accade e impararne il significato: è questa la nuova frontiera del sapere che ci hanno rivelato le scoperte (italiane) sui neuroni a specchio, che trasformano, con un apprendimento per mimica delle altrui azioni, le nostre cognizioni sulla realtà che ci circonda. Una mirabile azione della Natura madre e non matrigna che ci svela il mondo tramite le altrui esperienze per farci addentrare nello stesso tramite la mutualità collettiva quale maestra di vita.
Ecco come Dante, riflettendo su quanto sempre accade nell’esistenza reale, ha anticipato questa cognizione sulla trasmissione delle sensazioni che da un evento ne fanno derivare uno corrispondente per emulazione percettiva, che non solo sente ma genera effetti come se l’evento realmente accadesse:
sì de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond’io lasciai la cima
cadere, e stetti come l’uom che teme.
Un elemento incredibilmente interessante se lo leggiamo con gli occhi odierni che è definito su scala internazionale con queste parole:
Il dolore è un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole associata a danno tissutale, in atto o potenziale, o descritta in termini di danno. “ ( definizione elaborata dalla International Association for the Study of Pain (IASP) fin dal 1979 e che pur con piccole variazioni nel 1986 e rimasta eguale negli anni (Merskey H, Bogduk N. Classification of Chronic Pain: Descriptions of Chronic Pain Syndromes and Definitions of Pain Terms, 2nd edition. Seattle, WA: IASP Press; 1994) fino ad oggi, giacchè proprio nel 2020 è stata pubblicata la più recente revisione della definizione di Dolore (Raja S.N. et al : The revised International Association for the Study of Paindefinition of pain: conmcepts , challenges and compromises, Pain , 2020 May 23) in cui è stato inserito con maggiore enfasi, descrivendo in maniera precisa ciò che prima era espresso sinteticamente, cioè che esso è la somma di numersoe e differenti componenti sensitive, emozionali, sociali e ambientali che ne determinano la percezione, segnalando come la Nocicezione ( cioè il mero fenomeno neurofisiologico di percezione della sensazione fisica) sia un atto che non sempre richiede l’innesco fisico ma può esserne sufficiente la percezione di evento per scatenarne una memoria appresa e come questo scatenamento viene eleborato nel mare delle esperienze vissute e dall’educazione ricevuta e dall’adattamento neurofisiologico che tempra il nostro corpo e dall’ambiente sociale che lo giudica ; ecco gli elementi che trasformano una fisicità istintiva in una elaborazione culturale e sociale che ne definisce i caratteri individuali !
L’esperienza dolorosa, quindi, consta di una parte percettiva (nocicezione), che costituisce la modalità sensoriale che permette la ricezione e il trasporto di stimoli potenzialmente lesivi per l’organismo, al sistema nervoso centrale, ed una parte esperienziale (individuale), componente psichica – culturale connessa alla percezione di una sensazione spiacevole.
Il dolore, anche nella sua etimologia latina, è fisicità a- dolor -ōris, der. di dolere sentir dolore- ma allorquando si analizza la parola nella lingua greca abbiamo il termine Algos per definire il dolore fisico e il termine πάσχειν (pathos), letteralmente soffrire, che indica la parte irrazionale dell’animo, che inizialmente significava accadimento e che ci colpisce senza volerlo in senso negativo, usato per descrivere la sciagura o sofferenza umana che ne deriva.
Come ci ricorda anche Dante, il dolore è anche un patimento dell’animo, uno strazio, sofferenza morale che ci abbatte:
nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice e la miseria.
Il dolore è, quindi, una sensazione che, per trasformarsi da semplice reazione istintiva – mi pungi un piede e lo allontano subito – dovuta al circuito neurofisiologico a livello del tratto spinale- in elaborazione complessa e consapevole in cui si caratterizza il valore del senso tra biologia e cultura, si deve verificare un incontro con la componente corticale del cervello il quale, elaborando il segnale, ne riconosce le specifiche qualità e le trasforma da sensazione fisica a significato concettuale, individuale ed esperienziale, ne definisce i comportamenti e le scelte: uno toglie la mano dal fuoco poiché brucia (avviso sensitivo completato dall’intensità percepita di dolore che è prettamente derivante dalla fisica della trasmissione d’impulsi), un altro in virtù della sua espressione cognitiva corticale, mix di cultura-abito morale e desiderio in virtù di tutta la sua storia esperienziale, rimuove la mano o sopporta il dolore quale volontà espressa.
E’ da questo elemento, recepito poiché insito in ogni umana esperienza fin dal primo pianto in relazione all’ambiente circostante, che nasce l’educazione educativa e spirituale (religiosa o meno) di cui la scienza ha solo introdotto la consapevolezza decodificandone le basi biologiche che ne sottendono la espressione vitale (Mannion & Woolf, Clin J of Pain, Loeser, The Cl .J.of Pain, 2000 ).
Il dolore, quindi, è sia reazione sia premonizione, in virtù di una propria traccia mnemonica scritta nella nascita e modellata dalla vita che trova il senso della sua natura bio-psico-sociale.( W.Raffaeli, Du symptôme douleur à la maladie douleur Chronique d’une transformation incertaine, in Revue des Sciences Sociales, 2015, n° 53, Entre douleurs et souffrances pp 10-16)
Nelle persona afflitte dal dolore cronico, che ogni giorno ne rode le carni e lo spirito, il corpo malato rappresenta contemporaneamente lo scrigno della sofferenza e l’inganno, non potendo gli strumenti dimostrarne l’esistenza nella carne ma solo essi con la voce tracciare il racconto delle proprie sofferenze ! Una deprivazione di identità tragica che induce ad una continua ricerca di riconoscimento.
Le persone affette da dolore cronico complesso vivono una sofferenza che non ha segni inequivocabili da dimostrare: il loro corpo è integro ma il dolore lo trattegia come una sinfonia che diviene, con il trascorrere degli anni, un’opera drammatica e indomabile in cui si perde il senso della propria sofferenza immateriale (W. Raffaeli et alii: Qualitative Pain Classification in Hospice and PainTherapy Unit. Am J Hosp Palliat Care. 2012 Feb 5. ) – (Pragmatics , Pain and Forms of Life. Philosophical Investigations on Chronic Pain., F. Garofalo – W. Raffaeli, Esercizi Filosofici 6 , 2011 ,pp 266-280).
Un vuoto che stigmatizza ogni discorso sulla malattia. E’ la sofferenza che unisce, quale filo di Arianna, milioni di persone che cercano di comprendere cosa stia loro accadendo e come curarla.
La classe medica, gli psicologi e gli operatori della salute tutti, a queste voci tremule devono ogni giorno sforzarsi di dare la giusta cura, con tutto il pesante onere del conflitto tra umana condivisione e natura di lavoro. Per far ciò, devono attrezzarsi e comprendere come il lenimento del dolore sia garantito da una complessa mistura composta di una quota obbligata di scienza medica, con farmaci e strumenti, e di una compenetrazione con l’esperienza di chi soffre, che va accolta con la sapienza dell’ascolto, ma anche con l’impegno e la volontà di non lasciare nessuno solo ad affrontare l’arduo compito di trovare un senso al proprio dolore, cercando di fargli comprendere che nella vita la vittoria è sempre legata alla propria indole di stile, la quale non va mai tradita neppure nel buio più profondo, altrimenti nessuno riuscirà ad uscirne e rivedere il brillare delle altrui vite.
Ecco, nel leggere il Dante medico, troverete queste voci lamentanti la loro sofferenza, elementi di riflessione e nozioni di esperienze che saranno utili per creare un nuovo ascolto dei sintomi delle persone che si affideranno al vostro sapere di medici e di uomini .
Questa conoscenza ci fa comprendere come sempre possa esservi stata una cura, ancorché nel tempo medioevale per l’arte medica non vi fossero competenze di arte tecnica ma più conoscenza dotta e colta contrariamente alle necessità espresse da altri mestieri, ove senza abitudini di bottega manuali non si poteva accostarsi all’opera. Ecco che ritroviamo il segno del racconto: l’Alighieri scelse la Corporazione dei Medici e Speziali ed entrò dapprima nel Consiglio del Popolo, poi in quello dei Savi, in quello dei Cento e infine, dopo un incarico come Ambasciatore di Firenze a S.Geminiano, divenne uno dei sette Priori della Città sull’Arno .
In questo bel libro di Chiaretti, la testimonianza verte sulla storia ignota di un medico del passato che ci ha lasciato orme del suo saper fare non solo nell’arte sublime della letteratura ma anche nell’arte sapiente di essere medico delle sofferenze del quotidiano, mentre dialogava sulla complessa costruzione del suo descrivere al mondo la sofferenza sotto le stelle di ogni tempo !
Dedichiamo il sapere dell’amico e maestro Angelo a tutte le persone che hanno a cuore l’architettura umana del dolore per mettere a riflessione di tutti, le voci e i sentimenti, i ricordi, le ansie, i timori e le speranze di donne e uomini afflitti dallo scempio del dolore.
Nota alla Prefazione:
L’ Italia assegna un valore di grande respiro civico a questa richiesta di cura, poiché ne ha recepito il Diritto, fino allora sconosciuto nelle legislazioni sanitarie di tutto il mondo, con la promulgazione della Legge 38 del 15 marzo 2010 ( G.U. 19 marzo 2010, n. 65) Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore. Il diritto ad accedere alla cura del dolore e alle cure palliative quale riconoscimento di un principio ineludibile di dare assistenza all’umana sofferenza causata dal vivere in uno stato di dolore permanente.
Nella cronistoria della lunga strada fatta per ottenerne la promulgazione, ho avuto l’onore di aver partecipato con l’incarico di membro delle Commissioni ministeriali e dei gruppi di esperti ai lavori che hanno condotto a questa formidabile tappa istituzionale; dalle Commissioni preparatorie del 2004 al Comitato del 2010 che giunse a scriverne le basi tecniche per la sua promulgazione parlamentare e fino al 2015 nelle fasi di attuazione dell’iter in Conferenza Stato-Regioni (2012) per poi facilitarne l’applicazione clinica 2015.
Fondazione ISAL www.fondazioneisal.it
La Ricerca e la Cura sul Dolore Cronico assieme alla Formazione scientifica e alla Sensibilizzazione sociale e volontariato sono il cuore dell’attività della Fondazione ISAL, nata nel 1993 quale Associazione Onlus. Il lungo percorso di ricerca e studio ci ha permesso proprio nell’ultimo felice tempo del 2020, in febbraio, di pubblicare la identificazione del primo biomarker sierologico nell’uomo (W. Raffaeli, et alii: Identification of MOR – Positive B Cell as Possible Innovative Biomarker ( Mu-Lympho-Marker) for Chronic Pain Diagnosis in Patients with Fibromyalgia and Osteoarthritis Diseases Int., J. Mol. Sci. 2020, 21, 1499) che ci attendiamo potrà permettere di effettuare una diagnosi obiettiva laboratoristica del dolore e della sua severità nelle differenti condizioni cliniche, sottraendolo così dall’impurità del giudizio soggettivo che, come spesso accade, si sofferma troppo frequentemente a fare la tara ad ogni lamento della sofferenza altrui.
William Raffaeli
Presidente dell’Istituto di Algologia (ISAL)
presso l’Ospedale Infermi di Rimini
Nulla da aggiungere di importante a quello che Angelo Chiaretti scrive magistralmente a commento di questi versi di Dante che illustrano anche una Sua vena medica. L’ unico commento che mi viene a paragone con i nostri tempi è legato all’ analisi clinica portata avanti da Dante nella sua descrizione, analisi che è un fondamento inamovibile della medicina ed insieme un suo cardine fondamentale. Ebbene a ben guardare ciò che sta accadendo oggi, con la così definita “pandemia da Coronavirus”, si è verificato esattamente l’opposto. Quello che solo conta per la diagnosi di COVID-19 è il tampone naso faringeo, senza alcuna attenzione all’ aspetto clinico dei pazienti e delle persone. In altre parole la medicina pare avere abdicato alla tecnica (in questo caso per di più largamente imperfetta) la sua caratteristica principale basata sulla raccolta anamnestica, sull’ osservazione della persona, sul contatto fisico relato all’ esame obiettivo e solo a quel punto contemplando il possibile inserimento di esami strumentali. Gli esami strumentali in medicina sono sempre e solo un corollario e mai possono sostituire l’ acume e l’ osservazione del medico. Dante lo sapeva ma noi l’ abbiamo forse dimenticato? I risultati ad oggi del nuovo corso non paiono comunque entusiasmanti.
Prof Alessandro Capucci
Ordinario di Malattie Cardiovascolari
Nov 07, 2020 Commenti disabilitati su Pneumopatia da COVID-19: il punto di vista del Medico Vascolare. “Position paper” patrocinato dalla SIDV e della SIMV
Ott 12, 2020 Commenti disabilitati su Scompenso cardiaco con frazione di eiezione conservata: 5 cose da sapere
Ott 12, 2020 Commenti disabilitati su Pazienti con diabete tipo 2 a maggior rischio di demenza vascolare rispetto ad altre demenze
Ott 12, 2020 0
Gen 08, 2016 Commenti disabilitati su Lo stetoscopio e il suo inventore: René Laennec
Gen 07, 2016 0